GENZINI: In che modo si è avvicinato alla musica e alla composizione?
 
Il percorso è stato un po’ tortuoso. Ho iniziato a comporre sin dai primi mesi di studio del pianoforte. Inoltre amavo molto leggere nuovi brani – chi mi conosce sa quanto ami farlo anche ora – ma la mia grande passione era la Fisica. Infatti il maestro Armando Badolato per invogliarmi a proseguire gli studi musicali mi presentò la composizione come un'arte matematica. Alla sua scomparsa ho continuato con Claudio Perugini: una persona speciale, molto competente ed esigente, un compositore eccezionale e un punto di riferimento, che ha creduto nelle mie capacità e mi ha trasmesso il valore dell’artigianalità basata sul contrappunto e sull’analisi dell’opera dei maestri del passato. Il pianoforte l’ho sempre considerato il mio strumento di espressione principale ma ho sentito quasi necessario studiare anche direzione d’orchestra; il clavicembalo è stato il naturale completamento del percorso di studi. Mi è stato spesso detto di non disperdermi in troppe cose, perché non si può essere competenti in tutto. La fretta della società moderna ci porta a concludere che sia effettivamente così, che ogni cosa toglie all'altra tempo, energia e competenza. A parere mio è vero il contrario, come ci suggeriscono gli esempi del passato: penso ad esempio alla incredibile vita di Johann Joachim Quantz. Credo infatti nella formazione a trecentosessanta gradi, nella completezza della persona. Pur non volendo imporre tale modello mi aspetto che le persone non guardino negativamente chi desidera una formazione completa, chi con curiosità si interessa di tutto ciò che lo circonda. Che altro potrei fare?"Homo sum, humani nihil a me alienum puto".
 
 
 
GENZINI: Come si caratterizza il suo stile compositivo e quali sono stati i principali lavori che ha realizzato?
 
Cerco ispirazione da un’immagine: mentale, sonora o poetica. Se l’idea è definita riesco a comporre di getto, con poche esitazioni. Così è nato il recente ciclo di Lieder, per voce e violoncello, presto in prima esecuzione assoluta in Estonia e Lituania, su poesie di Ringelnatz e altri poeti. “Antithema e ricongiunzioni” è un brano per corno inglese richiestomi dal compositore Giorgio Sollazzi, basato su un’idea formale opposta a quella del Tema e Variazioni. Sono legato anche a due brani per clarinetto: “Sulfurea”,eseguito dal clarinettista e compositore Massimo Munari, “Fa sì che…” dedicato a Guido Arbonelli. Lavorare sulla colonna sonora del film “Cam Girl” di Mirca Viola mi ha fatto comprendere l’importanza del rapporto con l’immagine e con il ritmo delle riprese. Di volta in volta l’ispirazione mi ha portato a scegliere e approfondire tecniche e vocabolari differenti, ma il mio stile è ancora in via di sviluppo.

GENZINI: La musica barocca era sostanzialmente intrattenimento, la musica romantica era specchio dell’anima individualista Borghese, ogni epoca ha trovato una corrispondenza identitaria nella musica: quale può essere il riferimento alla nostra società per la musica contemporanea in generale?
 
Mi piace citare il mio amico e compositore Marco Quagliarini – con cui spesso mi confronto su tali tematiche – che osservando Turner alla Tate di Londra mi fece riflettere sulla capacità dell'artista di cogliere il respiro profondo della società ed intuirne e anticiparne gli sviluppi. È per questo che l’arte non è mai facilmente leggibile nella contemporaneità del suo manifestarsi nella società, ma di questa ne rimane la sua rappresentazione più fedele. Si fa fatica a trovare il senso della nostra epoca complessa, eppure sono ottimista. Rimarrà l’opera di quegli artisti capaci di comprenderla, descriverla e tramandarla. E a quel punto avremo capito meglio in che direzione procedevamo.
 
GENZINI: Il grande pubblico sembra preferire musica assai semplice oggi: secondo lei è segno di difficoltà di comunicazione o di complessità insite nella stessa musica contemporanea, la difficoltà di ricezione di quest’ultima?
 
La ricerca di semplicità è forse una risposta alla complessità dell'epoca, ma non posso non ritenerla frutto anche di un rapporto tra arte e individuo interrotto da troppo tempo. È normale trovare difficile ascoltare musica scritta nel Novecento: io stesso non andavo oltre l’apparenza di un insieme di suoni dissonanti. Ma l'orecchio si comporta in maniera simile all'occhio: di fronte ad un disegno complesso il cervello non è in grado immediatamente di coglierne la costruzione; si pensi alla prima volta che si vede un quadro di Kandinskij o di Pollock. Eppure a ben guardare, qualcosa c'è! A ben sentire si colgono relazioni, analogie e molto altro ancora. Se non fosse stato per il mio maestro di composizione che partendo da Debussymi ha guidato verso l’ascolto di Berg, Schoenberg, Webern,forse non sarei arrivato ad apprezzare Boulez. Un piccolo sforzo graduale ti permette di comprendere: comprensione è dapprima capacità di discernere e poi di trovare un senso, un senso anche solo primitivo e, giustamente, del tutto personale. Non tutti hanno la fortuna di godere di una guida durante la propria crescita: per questo l’educazione scolastica e le proposte concertistiche dovrebbero offrire un percorso progressivo e graduale. Il pubblico è invece di volta in volta scioccato da brani nuovi e incomprensibili. Solo certa musica semplice e riconoscibile, oppure ripetitiva, fortemente gestuale o che fa appello agli istinti primordiali – intensità sonora, ritmo, spazialità – colpisce e lascia il segno.
 
GENZINI: Quale può essere la strada per recuperare il grande pubblico alle nuove musiche?
 
È necessario che gli enti concertistici propongano una programmazione più bilanciata; allo stesso tempo mi auspico la creazione, da parte degli esecutori, di un repertorio. La ripetizione è fondamentale: ancor di più che nelle arti visive, la natura transitoria del materiale sonoro necessita di tempo per essere assimilata. Questa ripetizione è necessaria non solo per chi ascolta ma anche per chi esegue. Quanti esempi abbiamo di prime esecuzioni fallimentari trasformate in successo! Persino “Il Barbiere di Siviglia” di Rossini! Nessuno sa leggere correttamente un nuovo linguaggio semplicemente conoscendone l'al-fabeto, figuriamoci capirlo. Nessuno suonerebbe in concerto Beethoven senza aver prima studiato Mozart, Clementi, Haydn o aver approcciato un buon numero di brani affini. Può farlo, ma l'esecuzione risulterebbe mancante degli elementi strutturali, agogici, fraseologici fondamentali. Sarebbe una lettura meccanica dei fonemi di un linguaggio incompreso, la lettura di una traslitterazione. E questo avviene ogni giorno con la musica contemporanea! Gli esecutori – non tutti, per carità – si trovano a suonare opere di un compositore che non conoscono, senza il tempo di assimilarne il linguaggio o senza conoscere altro da lui composto; il pubblico ascolta un brano suonato da chi non l’ha capito fino in fondo in una lingua che né esecutore né spettatore comprende. Quel compositore è presto dimenticato, e via con un altro: un'estetica dopo l'altra, un “linguaggio” dopo l'altro. Fin a tutto il periodo romantico c’è stata identità tra la figura del compositore e dell'esecutore o comunque un rapporto strettissimo. Inoltre non era inusuale programmare diversi brani dello stesso compositore in una singola serata. Oggi la musica necessita di essere umanizzata dal rapporto tra compositore ed esecutore e dal confronto con il pubblico. Il pubblico non è essenza astratta, ma insieme di persone: per questo non amo – da esecutore, da compositore e da spettatore ¬ le sale troppo grandi. Si rischia di suonare per qualcuno che non ti può ascoltare davvero, perché troppo distante.
 
GENZINI: Che ruolo ha la tecnologia informatica nelle sue musiche? Quanta “mano artigianale” vi è ancora nelle musiche composte con queste novità tecniche? Gli strumenti tradizionali hanno forse esaurito le loro possibilità timbriche essendosi già espressi nella gamma dello loro stesse peculiarità?
 
C’è a mio avviso un equivoco da chiarire. Gli strumenti sono strumenti e come tali è pericoloso e può portare a grossi fraintendimenti dire che hanno esaurito le loro possibilità timbriche. Siamo troppo legati al concetto di timbro come di qualcosa che viene dallo strumento: è qualcosa che viene dalla nostra immaginazione, da noi stessi. Il suono va immaginato dall'esecutore, dal direttore d'orchestra e dal compositore. È qualcosa che può estendersi nel tempo, più del tempo di vita del singolo suono. Lo strumento, in quanto tale, non è la fonte della musica: se non troviamo più timbri, il problema potrebbe essere nella nostra mancanza di ispirazione. La tecnologia ci offre la possibilità di una vasta gamma di nuovi suoni, esponendoci ad un grande rischio: innamorarsi dei suoni che essa ci offre. Il processo è così invertito! Non siamo noi ad aver usato la tecnologia per riprodurre un suono che avevamo in mente ma viceversa. Se si ha un’idea di suono che non è soddisfatta dagli strumenti tradizionali allora ben venga la tecnologia. L’importante è che il processo avvenga con la giusta causa ed effetto. Se si sintetizza un nuovo suono e dopo si scopre di averne avuto bisogno, questo non mi convince. Non nasce da una vera esigenza interiore. Della tecnologia io stesso ne ho fatto ampio uso: nei laboratori di ricerca acustica, nel progetto Korridor a cura di Surogaat, nel mio gruppo di musica rock, negli studi sulla consonanza, nella musica da film e da esecutore, nei brani che la impiegavano. Pur riconoscendo che aumenta di molto le possibilità non ne amo molto gli esiti: prediligo i suoni di natura meccanica. Mi piace condividere il pensiero di Stravinsky: per scrivere bisogna ridurre il più possibile le infinte possibilità che abbiamo di fronte.
 
GENZINI: La musica contemporanea sembra aver raggiunto punte estreme di individualismo e di sperimentazione, nel senso che ogni compositore è un microcosmo a sé stante e ogni composizione ha riferimento solo a sé; quello che una volta era detto “stile” o corrente artistica manca del tutto, come sembra, oppure vi è una direzione per il futuro in qualche modo ravvisabile nel presente?
 
Sono d'accordo che ogni compositore crei un proprio microcosmo e che siamo in una situazione di enorme varietà di microcosmi. Questo è un bene! Il problema è che il compositore non dialoga con altri artisti. Se ci fosse un dialogo con i poeti, i pittori, gli attori, scultori, artisti performativi, registi, e altri musicisti ecc alcuni microcosmi diverrebbero più forti di altri portando sia alla scomparsa di quelli più deboli sia al rafforzamento dei sopravvissuti: sto ipotizzando una “selezione naturale” in cui l’adattamento coinvolga l’ambiente artistico. In ogni caso non tutte le idee che si sperimentano meritano di sopravvivere. Si può immaginare di tutto e tentare qualsiasi strada ma ad un certo punto ci dovrebbe essere un filtro. Nella musica lo individuo negli esecutori, negli altri artisti e solo in ultima analisi nel pubblico. Non è una mancanza di scuole di formazione ma la non possibilità di approdare ad una seconda casa, dopo l’inevitabile di distacco dalla scuola stessa. In questa situazione di isolamento è quasi impossibile creare dei nuovi punti di riferimento estetici. Voglio sottolineare la pochezza dell’individuo nei processi di sviluppo:un uomo solo, sia anche un genio, non lascia traccia facilmente. Avremmo Bach senza Mendelssohn? La condivisione dei propri ideali eviterebbe la chiusura individualistica, porterebbe alla creazione di un ambiente pronto ad accogliere e valorizzare le nuove idee, formerebbe un pubblico di estimatori e donerebbe ai microcosmi la dignità del Movimento estetico. Alessandro Viale